La strada di Maya

– Intro –

Venne narrata, in un tempo lontano, la storia di una giovane donna e del suo insolito cammino.
Venne raccontata in luoghi di cui ora non ve n’è più traccia e per secoli tramandata sino quasi a svanire, a dissolversi nell’ultima fredda brezza del vento del nord e perdersi tra l’arida polvere di terre dimenticate.
Finché, un giorno, un uomo seppe riconoscere negli occhi di colei che aveva di fronte l’inquietudine, la paura e l’immensità di quello stesso dono di cui il suo popolo aveva narrato per centinaia e centinaia di generazioni.
A pochi era dato il privilegio di poter percorrere la difficile strada che porta alla consapevolezza della vera essenza di ciò che siamo e di ciò che ci circonda, solamente persone speciali potevano possedere nella loro innata Natura la forza di arrivare dinnanzi all’Infinito, liberare i loro occhi da quel velo che li aveva ricoperti sino a quell’istante e ritrovarsi con la capacità di vedere chiaramente se stessi ed il Mondo, senza più timore né dubbi, senza l’impossibilità di colmare Il Vuoto e renderlo possibile.
Solamente degli spiriti puri avrebbero, inconsciamente, annuito al loro inevitabile destino ed accettato di intraprendere un simile Viaggio, soli, avvolti dal terrificante vortice del Nulla, dalle angoscianti tenebre dell’Incertezza e ricolmi di domande apparentemente senza risposta alcuna.
Soltanto pochi…
Forse, in un possibile presente, soltanto quella donna…

1.
I suoi consumati stivali di chiara pelle stavano solcando l’arida terra della strada da troppe ore, la rossa polvere di quella regione aveva prepotentemente invaso i suoi abiti sino ad arrivare al castano dei suoi lunghi capelli, lisci come la seta. Il sudore le stava bagnando insistentemente la fronte, la sua gola chiedeva con fermezza d’esser dissetata, la sua mente ed il suo corpo di trovar riposo. Da troppe settimane il suo vagare nel mondo l’aveva condotta con ogni mezzo in ogni dove, senza riuscire però a soddisfare il suo bisogno di trovar risposta, senza donarle quell’aiuto che tanto aveva confidato di poter scorgere al di fuori della sua quotidianità. Senza poter trovar pace nel liberarsi di quell’incubo che da mesi opprimeva il suo sonno. E ora la stanchezza stava iniziando a rendere insopportabile ogni metro percorso.
Troppe volte s’era immersa in infuocati tramonti ed in limpide albe cercando risposte a domande che non avrebbe più nemmeno saputo dire di conoscere con esattezza; troppe notti il suo sogno più angosciante l’aveva condotta per mano sulle sponde di un lago di cui con tutta se stessa avrebbe voluto toccare le acque, immergersi, dissetarsi, ma che mai aveva neppure sfiorato, svegliandosi ansimando, fradicia del suo stesso sudore, in cerca disperata di qualcosa da bere in grado di placare la tremenda arsura della sua bocca e la soffocante ansia della sua anima.
Per la sua incapacità di capire e comprendere ciò che davvero stava accadendo fuori e dentro di lei, era partita, lasciandosi tutto alle spalle, senza una meta, senza un percorso, in totale balia del nulla e, ora, stava iniziando a pensare che era stato tutto inutile: non sapeva più cosa mai avesse potuto davvero possedere un senso, cosa la poteva ancora spingere ad andare avanti, perché continuare a porsi domande a cui, molto probabilmente, mai sarebbe riuscita a dar risposte in grado di farla tornare a casa diversamente da com’era partita, perché…

Nel mezzo di tutto questo delirante vortice di inquietudine ed incertezza, spinta quasi da quell’innato senso di sopravvivenza che ogni individuo cela nel suo Io più profondo, ad un tratto, soltanto un pensiero le attraversò la mente: così non poteva più andare avanti.
Aveva assolutamente bisogno di una branda su cui distendersi, di una doccia fresca che l’avrebbe aiutata a schiarirsi le idee, di cibo per nutrire, quantomeno, il suo corpo, esile ma atletico, forte ma incapace di proseguire oltre in quelle condizioni. Doveva fermarsi, senza più riflettere, e concentrarsi soltanto sull’idea di recuperare un qualsiasi mezzo che potesse diventare suo. Qualunque meta avesse scelto o non scelto, casa o strada, non poteva assolutamente più sopportare d’esser sballottata sulle vetture più allucinati, di esser caricata come autostoppista dagli individui più assurdi incapaci di farsi gli affari loro e non porle domande a cui lei non aveva la ben che minima voglia di rispondere, o di affidarsi solamente alle suole dei suoi tanto amati stivali.
Unico, non indifferente problema: come?
Ma, come spesso accade, consciamente o meno, ecco che la fortuna, il caso o il destino, che dir si voglia, arrivarono a porgerle un cortese aiuto.

Ad un tratto Maya lanciò uno sguardo all’orizzonte, là dove la sera stava per avere inizio e scorse qualcosa che senza ombra di dubbio doveva essere una casa abitata, forse un piccolo locale o…
Affrettò il passo, spinta da questa nuova motivazione per raggiungere quel qualcosa che avrebbe potuto offrirle ospitalità per la notte e presto capì di trovarsi dinnanzi ad un vecchio distributore di benzina così lasciato andare a se stesso che, se non fosse stato per una pallida luce accesa e la presenza di un uomo seduto proprio davanti all’ingresso, avrebbe potuto tranquillamente essere abbandonato.

Dono della sua acquisita diffidenza ed insicurezza, più si avvicinava a quel luogo, più non era convinta di quello che stava facendo e i suoi passi si facevano lenti, quasi trascinati. L’uomo seduto fuori era un vecchio indiano, ora lo poteva scorgere meglio e sembrava solo. Forse non era il caso, ma non c’erano alternative, non aveva altra scelta. E qualcosa di più forte e grande di lei inconsapevolmente la stava spingendo verso quella luce, verso quell’individuo, verso…

Forse, ne avesse avuto il tempo, si sarebbe fermata un attimo a pensare sul da farsi, forse avrebbe cambiato idea, forse…
Troppo tardi.
All’improvviso, senza quasi essersene resa conto, si trovò in piedi, ferma, dinnanzi a quello strano indiano che la stava osservando senza pronunciar parola.

2.
Il suo viso era ricoperto di rughe profonde, una lunga treccia di capelli bianchi cadeva sulla sua spalla destra, ai suoi piedi un vecchio cagnolino dormiva intensamente.
Il suo profondo sguardo fissò per qualche istante Maya con calma e diffidenza. Poi, come se lei non fosse neppure esistita, tornò a fissare il fumo della sua pipa e i curiosi disegni che riusciva a creare sotto la pallida luce proveniente dall’interno.

Rimase in silenzio, incapace di pronunciar parola, persa in quell’attimo sfuggente ma infinito in cui i suoi occhi s’erano potuti specchiare in quelli di quello strano uomo. Qualcosa l’aveva presa, qualcosa che non riusciva a comprendere, per qualche secondo, l’aveva rubata al presente, rapita e riempita d’una incomprensibile quiete. Solamente istanti.

“Cosa vuoi?”
La voce pacata dell’indiano la face ritornare improvvisamente in sé, superando e abbattendo ogni suo scudo protettivo, rendendola insolitamente insicura e timida al resto del mondo.
“Io… mi chiedevo… sono giorni che cammino, forse…”
“Non mi piacciono le visite degli sconosciuti. Vivo solo e ho pochi amici. Io e i miei spiriti guida bastiamo a noi stessi.”

Restarono entrambi immobili, senza parlare, come se qualcosa fosse stato in grado di congelare ogni loro azione. Finché il vecchio non alzò nuovamente la testa, scrutando intensamente il suo sguardo. Qualcosa in Maya aveva fatto sussultare il suo animo difficilmente perturbabile.
Qualcosa che ancora non riusciva del tutto a comprendere gli impediva di cacciarla via come avrebbe fatto con qualsiasi altra persona fosse capitata nel suo territorio, in quella maniera e con quelle così esplicite intenzioni di chiedere ospitalità. E più s’immergeva nelle scure profondità dei grandi occhi di quella ragazza e più seguiva i lineamenti sottili, quasi orientali, del suo volto nascosto tra quei lunghi capelli di seta nera, più riusciva chiaramente a percepire una grande sofferenza, un enorme disagio provenire proprio dal suo animo. Non si trattava di una dei soliti “girovaghi”, aveva qualcosa di molto diverso, ma il perché di tanto male…

“Perché sei in viaggio?”
Sorrise d’un sorriso triste e rassegnato.
“Non so, non lo so più. Forse sto cercando qualcosa, forse me stessa o forse… beh, sto solamente scappando… per nulla…”

L’indiano annuì in silenzio, facendo un cenno con la testa.
“Laggiù, in quel fienile puoi trovare quello che cerchi. Ti farà strada il mio cane. Forse domani sarà un giorno più limpido.”

Quel poco che le era rimasto della sua, già poca, razionalità le avrebbe imposto di lasciar stare, di rifiutare, di andarsene, ma qualcosa che stava prepotentemente andando oltre alla sua ragione la stava trattenendo in quel luogo e la spinse ad accettare.
Come mosso da telepatia, il piccolo cane si alzò e con i suoi occhi grandi e profondi, in modo curioso, proprio come quelli del padrone, la condusse al vecchio fienile.
Stranamente rilassata, Maya gli diede un’affettuosa pacca sulla schiena ed iniziò a guardarsi rapidamente attorno.
“Grazie, amico mio, proprio quello che ci voleva.”
Lanciò zaino e sacco a pelo sopra il fieno accatastato e, stremata, ci si buttò sopra senza più pensare a nulla, dando soltanto un’occhiata all’interno di quella che, per quella notte, sarebbe stata, ancora una volta, la sua nuova casa.

Il posto non era molto grande, pieno di ogni cosa immaginabile accatastata una sopra l’altra: pezzi meccanici, attrezzi, un qualcosa assomigliante ad una vecchia motocicletta buttata in un angolo, dimenticata e ricoperta da altrettanto vecchie coperte di lana, cibo in scatola, carne secca, bottiglie di birra e whisky, un’antica pompa dell’acqua accanto alla porta, fortunatamente ancora funzionante e… forse c’era anche un vecchio armadio di legno con… Troppo tardi, troppa stanchezza: gli occhi affaticati dal sole e dalla polvere le si chiusero senza darle nemmeno il tempo di accorgersene e, con la solita morsa dell’ansia tra il petto e le bocca dello stomaco, si addormentò, sprofondando in un pesante sonno, come ogni notte tormentato dal suo incubo.

Ma quella notte il suo incubo cambiò.

In quell’universo sconosciuto del suo inconscio, in quella realtà parallela, forse davvero ed in qualche modo esistente, del mondo in cui ad ogni torpore Maya s’immergeva come vittima e creatrice, inaspettatamente, quella notte qualcosa mutò il corso degli eventi già mille volte vissuti.
La strada che percorreva non era più così buia, non più così terribilmente inquietante. Brutta, spaventosa, tanto da riempirle il cuore di angoscia, ma di un’angoscia differente, forse perché troppe volte già provata, già consumata. L’affanno sparito. Non stava correndo, anche se il paesaggio si muoveva ancora più veloce davanti ai suoi occhi. La brama di acqua e la sete erano rese un po’ più sopportabili da un’insolita brezza di aria fresca che le sfiorava il volto, accarezzandolo quasi. E il sudore svanito. Finché, in fondo al nero del suo percorso, ecco, finalmente, il suo lago, quasi raggiunto, quasi toccato e… nuovamente l’ansia, le chiare acque ancora una volta allontanarsi senza neppure essere state sfiorate dalla sua mano tesa. Il suo corpo quasi svenuto sulla cruda terra, le limpide sponde sempre più lontane, il buio, il vuoto, il nero sempre più opprimenti…
Ma una strada all’orizzonte comparve all’improvviso, illuminata da una luce proveniente da dietro alle sue spalle.

Quella notte Maya non si svegliò di soprassalto, quella notte Maya riuscì ad addormentarsi davvero, finalmente riempita di un istante di pace rigeneratrice, seppur ignara di quello che le sarebbe accaduto il giorno successivo.

3.
Un forte profumo di caffé arrivò intenso all’interno del fienile, accompagnando dolcemente Maya verso un risveglio molto più pacifico e rilassato rispetto a tutti quelli di cui era stata protagonista negli ultimi mesi. Dalla fessura della porta appena socchiusa stava già entrando un sole prepotente e caldo, molto probabilmente già alto da alcune ore.
Si alzò, cercando di riprendere le redini della sua mente ancora mezza addormentata ed ovattata, buttandosi sotto la tiepida acqua di quella antica pompa che davvero funzionava ancora; sbatté i suoi jeans dalla polvere del giorno prima, si infilò una maglietta leggera, i suoi inseparabili stivali e, come un pipistrello infastidito dalla troppa luce, uscì da quel luogo, in cerca della provenienza di quell’amato aroma che l’aveva saputa svegliare così garbatamente.
Con suo grande stupore, appena fuori, trovò una bollente tazza di nero caffé appoggiata su un vecchio tavolaccio di legno, accanto ad una panca altrettanto vecchia, con il piccolo cane che la guardava agitando velocemente la coda.
“Hey, ciao, mi hai preparato tu la colazione? Eh, bello?”
Si sedette e fece un abbondante sorso da quella tazza di coccio, probabilmente decorata a mano. Diede un’occhiata all’orizzonte. Forse, presto il paesaggio sarebbe potuto cambiare.
Là, oltre quell’immaginaria linea che divide il mondo in due, cosa mai avrebbe potuto trovare? Quale doveva essere ora la sua strada?
Sospirò profondamente. Sentendo che la sua innata vena malinconica e un sottile strato d’ansia si stavano già facendo varco in quell’inaspettato risveglio.

“Buongiorno, ben svegliata.”
La pacifica voce dell’indiano la riportò nel luogo in cui realmente si trovava.
Si voltò verso l’uomo, trovandosi piacevolmente dinnanzi al un volto calmo e rilassato, ricolmo di una saggezza imponente ma, nello stesso tempo, volutamente celata al mondo.

“Buongiorno a te. E…”
“Non ringraziarmi, il caffé dovevo prepararlo comunque.”

Seppur sempre silenzioso e con un atteggiamento distaccato, riservato a tal punto da sembrare eccessivamente scontroso, la sua espressione era completamente cambiata rispetto alla sera precedente. Come se ora una sorta di consapevolezza avesse invaso il suo spirito e gli avesse narrato tutta la sua storia, gli avesse svelato chi fosse quella strana ragazza a cui aveva dato ospitalità, come se da sempre l’avesse conosciuta. Ma tutto questo, stranamente, non l’aveva per nulla messa a disagio.

“Ok, grazie in ogni caso. Toglierò oggi stesso il disturbo, ma devo trovare…”
“No. Non è questo il momento di parlare del tuo viaggio. Ora sta arrivando il mio figliastro.”

Qualche istante dopo, avvolto in una nuvola di polvere, comparve la sagoma di un pick up, rovinato da chissà quanti anni di chilometri percorsi e dalla ruggine che aveva quasi completamente corroso la vernice, tanto che, per un attimo, Maya si domandò come diavolo facesse a camminare ancora.
Senza abbandonare la sua espressione imperturbabile, l’indiano si alzò lentamente dalla vecchia panca e andò in contro all’uomo che stava scendendo da quell’improbabile vettura.
Dopo un abbraccio fraterno, rimasero per qualche minuto distanti, quasi non volessero farle sentire quello che si stavano dicendo, poi si girarono verso di lei, continuando a parlare, osservandola da lontano.
E tutto ciò non le piacque per nulla.
Ma non ebbe il tempo di pensarci troppo: pochi istanti dopo fu ben altro che colpì la sua attenzione.

Soffermarsi sull’aspetto esteriore delle persone non era certamente da lei, non faceva parte della sua Natura il fatto di dar peso alle apparenze, ma in quell’occasione non riuscì proprio ad evitarlo.
L’uomo che le era stato appena presentato, mostrava un corpo dalla bruttezza quasi mostruosa: il volto segnato da profonde cicatrici, sfigurato, dai lineamenti quasi irriconoscibili ed inconfondibili allo stesso tempo, il fisico, di un’altezza al di fuori della norma, troppo provato, eccessivamente magro, tanto da apparire deforme.
Eppure, quando quello strano personaggio iniziò a parlare, improvvisamente le sembrò la persona più bella che mai avesse incontrato. La sua voce la ipnotizzò completamente, le sue parole la resero totalmente cieca dinnanzi al suo aspetto, conducendola lontana, piena di meraviglia per tanto splendore di spirito che sapeva perfettamente annullare tutto il resto, seppur raccontando, apparentemente, soltanto una semplice e piccola storia.

“E’ la prima volta che vedo qualcuno fermarsi qui. Deve esserci qualcosa di raro in te. Qualcosa che ti rende differente.”
“He! Non credo proprio, anzi…”
L’uomo le sorrise dolcemente d’un sorriso splendente.
“Un giorno te ne renderai conto e vedrai che tutto cambierà. Ora però devo andare.”
“Senti, forse… potresti darmi un passaggio così…”
Il suo intenso sguardo le penetrò l’animo con dolcezza, arrestando le sue parole.
“No. Hai un altro mezzo per proseguire il tuo viaggio.”
“Ma… di cosa stai parlando?”
“Lascia che il destino faccia il suo corso, libera la tua mente e non pensare. Ciò che dovrà essere, inevitabilmente sarà. A presto, amica mia.”
Colpita, non riuscì a dir nulla per controbattere quelle criptiche ed inaspettate parole.
“…non penso che ci rivedremo mai.”
Lo strano uomo, senza fermare i suoi passi diretti sulla strada del ritorno, si girò appena. Sorridendole nuovamente, alzò un braccio in cenno di saluto e la lasciò nella totale incredulità.
Finché, l’indiano che gli aveva lasciati soli per un tempo indefinibile risbucò dalla penombra della sua casa.

“Bene, sembra che tu ora abbia trovato il mezzo per giungere alla tua meta, mia giovane Viaggiatrice.”
L’impossibilità di capire tutto ciò che i due uomini le stavano dicendo, iniziarono ad innervosirla.
“Quale mezzo!?! Di cosa diavolo mi state parlando tu e quell’altro… E poi, arrivare dove?! Quale meta!?! Cosa ne volete sapere voi…”
“Non aver fretta, non perdere la calma, lasciati guidare dal tuo Spirito. E vedrai che quando arriverai, capirai ogni cosa. Seguimi, ti voglio mostrare con cosa proseguirai il tuo cammino.”

4.
Rassegnata alla sua condizione di non riuscire assolutamente a comprendere e spinta da una sorta di inconscia e cieca fiducia per quel vecchio che, senza domande né risposte, aveva deciso di prendersi quasi cura di lei, non poté far a meno di seguirlo.
E, con una certa perplessità nell’animo, si ritrovò di nuovo in quel vecchio fienile pieno di ogni cosa immaginabile che le aveva dato ospitalità la notte precedente.
L’indiano si fece strada tra scatoloni ed attrezzi, mentre il suo cane annusava meticolosamente ogni cosa spostata dal padrone. Ad un tratto, scaraventò in un angolo una polverosa coperta, e, come per magia, comparve davanti ai loro occhi la sagoma di quella vecchia motocicletta abbandonata che Maya era solamente riuscita ad intravedere distrattamente prima di lasciarsi invadere dal sonno.

“C’è da darle una sistemata, è ferma lì da tanto tempo ad aspettare l’arrivo di qualcuno che la riporti in vita. Io ormai sono troppo vecchio, ma… credo che tu sia capace di farlo, o mi sbaglio?”
“Beh… io… non lo so… Mio fratello, quando ero ragazzina, aveva un’officina, delle moto… ma non credo di essere in grado…”
“E se non ci provi non lo saprai mai. Io penso che tu possa farcela.”

Lo guardò negli occhi per qualche istante. Era tanto tempo che qualcuno non le dimostrava così fermamente di credere nelle sue possibilità, e non riusciva a comprenderne la ragione.
Come faceva a trasmetterle la sensazione di sapere della sua vita e del suo Io molto più di quanto mai lei stessa non si ricordasse di aver raccontato a qualcuno?
Perché avrebbe dovuto darle quella motocicletta? Perché proprio lei?
Inaspettatamente, ad un tratto, smise di porsi domande.

“Forse. Ma con cosa…”
“Qua dentro troverai tutto ciò che ti serve, basterà soltanto che tu lo cerchi con cura. E che tu creda di potercela fare.”

Ora lo sguardo dell’indiano s’era fatto molto più serio e quasi interlocutorio.

“Potrai rimanere qui finché non avrai finito e sarai pronta per ripartire.”
E detto ciò se ne andò, seguito dal suo scodinzolante amico.

Maya si sedette di fronte a quell’ammasso di ferro inerte e cromature spente, senza riuscire a muovere un dito, senza riuscire a percepire dentro di sé nulla, vuota, incapace di ogni iniziativa. Si sentiva nuovamente smarrita, persa, immobile a sbirciare in un passato complicato e faticoso, a fissare un presente che non riusciva ad afferrare, governare, capire, scorgendo soltanto la sua immagine riflessa in un futuro completamente ignoto e pieno di domande a cui non aveva neppure la forza di pensare.

Rimase in bilico tra la realtà ed il vagare della mente, in uno stato quasi d’incoscienza, così, per tutto il giorno, sino al sopraggiungere della prima stella della sera, quando un lieve riflesso di luna inizia a far capolino nell’immensità del cielo. Fu in quel momento che si alzò, le sue mani si serrarono in stretti pugni, quasi a voler rinchiudere con tutta l’energia di cui potevano disporre quella forza interiore che improvvisamente era tornata ad infuocare il suo animo.
“Se IO lo voglio davvero, ce la posso fare.”

Il mattino seguente, quando il vecchio indiano arrivò sulla soglia del fienile con la tazza di nero caffé bollente, sorrise soddisfatto e compiaciuto, annuendo con la testa, nel vedere Maya completamente sporca di grasso e polvere, ancora intenta a lavorare.
Aveva armeggiato di chiavi tutta la notte, senza mai fermarsi, e più il sudore le aveva bagnato la fronte, più il tempo era trascorso in preziosi istanti e più le era parso di non aver mai dimenticato: ogni suo gesto spontaneo, naturale, conosciuto, a lei sempre appartenuto. Alle prime luci dell’alba, aveva messo a punto la sua opera ed ora stava tirando a lucido quella che era tornata ad essere una signora motocicletta: precisa, del tutto funzionante, ogni pezzo al suo posto ed un motore che, a sentirlo, pareva potesse cantare. Ce l’aveva fatta.
E una nuova luce era tornata a risplendere nel suo animo.

“Non ti avrei cacciata così in fretta, sai?”
“Hai visto?! Guardala! E’ una meraviglia! Non so se sarò ancora capace di guidarla, ma lei è assolutamente perfetta!”

Per la prima volta dopo mesi di vuoto, i suoi occhi erano tornati ad illuminarsi di un qualcosa che tanto assomigliava alla Vita.

“Sì, mi sembra un ottimo lavoro. Ma ora fermati, hai bisogno di riposare un po’. Vieni a sederti fuori con me.”

L’aria di quel mattino era fresca, limpida, pulita. Per una volta, nel guardare il cielo, non aveva sentito né nostalgia né malinconia, ma solamente la voglia di riprendere la sua via, segnata da un insolito eco di speranza, pronta a condurla oltre ai confini di chissà quali mondi.

“Sai, sono rimasta tutto il giorno con lo sguardo perso nel vuoto, non sapevo assolutamente cosa fare, come, che parte iniziare. Me ne stavo lì, convinta che presto sarebbe arrivato il panico a cui non avrei potuto oppormi e… probabilmente sarei scappata via, mi sarei rintanata in me stessa… chissà dove… ed invece…”
“A volte, bisogna solamente saper aspettare e credere in quello che abbiamo davanti e dentro noi stessi. Vederlo, riconoscerlo, esserne consapevoli ed aver costanza e fede.”

Nelle sue parole, in tanta saggezza resa così limpida in una frase così semplice, quasi scontata e banale, per un istante, Maya intravide un qualcosa che, forse, le era sempre appartenuto, ma a cui non riusciva ancora a dar né forma né colore, ancora non riusciva del tutto a comprendere, ad appartenerle appieno a riempirle quel vuoto che già stava ritornando a farle visita. E la sua espressione mutò.

“Sì, non è ancora giunto quel giorno, ma presto capirai. Ora devi ripartire. Il tuo Viaggio ti attende, la tua strada è pronta a condurti alla prossima meta.”
Sorrise d’un sorriso un po’ malinconico.
“Non è un addio e… sai, forse… forse ora so dove…”
“Lo vedrai, lo riconoscerai e comprenderai. E un giorno tornerai qui per raccontarmelo. Lo so. È il tuo destino. Ora vai, è il momento.”

5.
Spinse piano quella due ruote rinata a nuova vita fuori da vecchio fienile, senza riuscire a nascondere un po’ di titubanza e timore per quel nuovo ed inaspettato sviluppo della sua piccola avventura. Il sole stava iniziando a batter forte sulla sua testa, risplendendo alto nel cielo e picchiando con insistenza sulle cromature, lucidate alla perfezione, che erano tornate a riflettere il mondo dal loro indiscutibile punto di vista.
Rimase qualche istante a fissare l’incredibile risultato della sua nottata di lavoro, poi, con un’insolita calma, assicurò il suo bagaglio sul parafango posteriore, girò la chiave, diede un paio di colpetti leggeri di gas e l’accese. Impeccabile e precisa, la motocicletta partì, con il suo minimo costante ed irregolare, rimanendo in attesa, sicura ed impavida, come se avesse potuto esser fiera di se stessa.
Maya sospirò profondamente e si girò per l’ultima volta verso quello strano e magico luogo, incrociando da lontano lo sguardo attento dei suoi nuovi amici che dalla soglia della casa la stavano guardavano con rispetto ed affetto. Ed infine si decise: salì in sella al suo nuovo mezzo, con fermezza tolse il cavalletto, ingranò la prima e partì, lasciandosi alle spalle tutto il resto del mondo, avvolta da una nube di rossastra polvere.

Più l’asfalto scorreva liscio e pacifico sotto le sue gomme, più quell’insicurezza e quella titubanza che l’avevano infastidita alla sua partenza stavano sfumando in nuove e piacevoli sensazioni. Era passato tanto tempo da quando si era messa alla guida di una due ruote, tanti anni, eppure, con sua gradita sorpresa, miglio dopo miglio, la netta impressione di non aver mai smesso, di non esserne mai scesa la rendevano sempre più sicura di sé. Ogni movimento, ancora una volta, era tornato ad essere spontaneo, naturale, come se lei e quella motocicletta fossero un’unica entità, una il prolungamento ed il completarsi dell’altra, indispensabili, come se il tempo mai fosse passato.
Il paesaggio le scorreva accanto lentamente, sfiorandola, avvolgendola, per poi riempirla e renderla parte di sé stesso e di tutta la sua immensità.
La strada era deserta, attorno a lei nessun altro, e, come viva, le stava facendo da unica ed insostituibile compagna di viaggio.
Il motore girava calmo e possente, con il suo suono cupo, inconfondibile, capace di infonderle un senso di sicurezza e protezione, di non farle ascoltare il rumore dei suoi pensieri, di non badarci, mentre un’aria profumata e fresca le stava accarezzando il volto, tornato, inconsapevolmente, ad esser riempito da uno spontaneo sorriso.
Sentiva chiaramente di dover portare un grande rispetto per quel mezzo, per La Strada, per ogni miglio Vissuto, per quel senso di sicurezza e pace che l’aveva avvolta con la piena consapevolezza, però, che ogni minuscolo errore sarebbe stato punito, che nulla sarebbe passato inosservato a quella sorta di entità che le stava concedendo un attimo di respiro da tutto il resto.
Mai dimenticarsi di aver un po’ di timore e paura, mai sfidarla, mai oltrepassare la soglia dell’eccessiva sicurezza, mai…
Sorrise. Nel pensare tutto ciò, quello che riusciva a percepire nel suo Io più profondo era soltanto calma, fermezza, decisione, consapevolezza… almeno per qualche istante…

Mentre il paesaggio attorno a lei stava iniziando a cambiare sempre più rapidamente con il calare inevitabile del sole, l’arida terra rossa, s’era fatta più compatta, più umida, più scura. Lentamente il verde s’era impossessato del paesaggio, colorando con le sue infinite sfumature quelle colline diventate ormai boschi di maestose ed immortali montagne.
Il rosso intenso di uno dei più bei tramonti che avesse mai visto stava prepotentemente ridisegnando ogni forma e sfumatura di quell’incredibile paesaggio.
Presto sarebbe giunta la notte. E, con la solitudine e l’incertezza dell’oscurità, l’ansia sarebbe tornata sicuramente ad impadronirsi del suo animo, rendendola ancora una volta totalmente vulnerabile ed indifesa, vittima e creatrice di un mondo diverso, differente, capace di schiacciare ogni sua volontà.
Ma, ad un tratto, proprio al nascere di quella prima stella della sera, dietro all’ultima curva, scorse un’inaspettata vallata, pacatamente illuminata da qualche luce sfuocata.
“Salvezza! Coraggio, piccola, abbiamo trovato in tempo un posto dove riposarci un po’, ce lo siamo meritate…”

Il paese in cui s’era imbattuta pareva fosse uscito da uno di quei vecchi film western visti in TV: quattro case sparse di un legno levigato e consunto dal tempo, disposte, in un improbabile e quasi incomprensibile ordine, attorno a quella che non poteva che essere la via principale, il centro di quel paese dimenticato dal mondo. Ogni singolo particolare di quel posto era in grado di trasmettere un’insolita varietà di emozioni ed impressioni apparentemente discordanti le une dalle altre. Ad ogni sguardo posato attorno, la visione di una grande povertà riempiva ogni cosa, accompagnata, però da una sorta di immensa dignità e pace, scolpite nel volto e impresse nello sguardo di quelle poche anime che stavano osservando con naturalezza il suo lento e borbottante passaggio per quella via desolata. Nell’aria un dolce profumo di quiete e sincerità.

Qualcosa di più che la stanchezza, le imposero di accostare la sua motocicletta davanti all’ingresso di quell’unico locale esistente, sovrastato da una vecchia insegna di legno dipinta a mano, recante la scritta: “Fermati, viandante, e trova ristoro da noi.”; con una piccola e, molto probabilmente, recente aggiunta dell’ultimo proprietario, scritta a vernice bianca: “Rooms”.
Accolta da una gentilezza ed una cortesia inaspettata, avvolta da quell’insolito senso di pace e con la mente ovattata dalla stanchezza di tutte le miglia percorse, rifocillò il suo corpo sino a sazietà, rilassò i suoi muscoli affaticati sotto lo scrosciare caldo di una lunga doccia e crollò inevitabilmente tra le braccia di morbide coperte, profumate di un fresco pulito.
L’indomani sarebbe presto giunto…

6.
Quando riaprì gli occhi il sole era già alto e splendente nel terso cielo, ornato solamente da qualche innocua nuvoletta bianca e paffuta. I rumori pacati e le voci allegre del piccolo paese accompagnarono il suo primo sbadiglio, senza dar fastidio, senza disturbare, quasi a volerle dare un sincero buon giorno.
Per la prima volta dopo un tempo così lungo da esser indefinito, Maya s’era risvegliata tranquilla, serena, senza presenza alcuna di preoccupazione, di angoscia, di vuoto. Per la prima volta dopo infinte nottate, il suo sonno era stato totalmente privo di quell’inquietante incubo, solamente riposo, soltanto quiete e pace.

Si alzò, buttò la testa sotto il getto freddo dell’acqua per riuscire a togliersi di dosso le ragnatele del suo dormire profondo che, ancora e come sempre, rendevano così difficile il riavvio della sua mente, si avvicinò alla finestra di quella piccola stanzetta la primo piano di quella locanda che si affacciava direttamente su tutta la vita del piccolo villaggio, diede un’occhiata al teatro che le si presentò dinnanzi e sorrise dolcemente.
Apparentemente così poveri, così privi di tutto ciò che il mondo moderno aveva da offrire, così isolati in una realtà al di fuori del comune immaginabile, eppure, quella gente era in possesso di una ricchezza tanto semplice da non riuscire neppure a farci caso, da non poter neanche lontanamente capire quanto potesse essere enormemente ed inconsapevolmente invidiata da milioni e milioni di persone. Quella gente possedeva un’innata serenità, una spontanea felicità dipinta nei loro occhi, in ogni semplice gesto del loro corpo, in ogni dove del loro essere. Un qualcosa che, allontanate le apparenze, riusciva a renderli meravigliosi, splendenti, ornati di una fierezza e di una dignità impareggiabile, di…

Ad un tratto qualcuno bussò alla porta e i suoi leggiadri pensieri furono riportati forzatamente alla realtà della sua piccola stanza.

“Chi è?”
“Buongiorno, signorina, scusi il disturbo, mi hanno detto di avvisarla che un amico l’aspetta di sotto con una nera tazza di caffè bollente.”

Il suo sguardo, analizzò rapidamente la porzione di mondo che le era dato catturare dalla sua finestra, cercando di capire di chi diavolo si potesse mai trattare. E ad un tratto, con sua gradita sorpresa, capì.
“Va bene, grazie, gli dica che raccolgo le mie cose e sarò da lui.”

Dall’altra parte della strada, parcheggiato tra due case, un vecchio pickup dalla vernice scrostata e dalla carrozzeria arrugginita.
Scese rapidamente le scricchiolanti scale di legno che separavano la zona notte dal salone del bar, facendo risuonare rumorosamente i tacchi consumati dei suoi stoici stivali di pelle chiara e, pochi istanti dopo, si tuffò nel fondamentale primo sorso, seduta sotto il portico d’ingresso del locale.

“Il tuo innato spirito di osservazione e la tua capacità di guardare ti hanno detto molto sta mani al tuo risveglio, non è così, amica mia?”
“Eh, effettivamente, non posso negarlo. Mi fa piacere rivederti, sai?”
“E non ti vedo neppure sorpresa di ciò.”
“Già…”
“Sarà la quiete e la bellezza di questo posto… O… che sei sulla giusta via…”
Si scambiarono uno sguardo d’intesa, profonda, sincera, leale.
“Ora perdonami, Maya, devo proseguire il mio cammino. Buon viaggio. Un giorno ci rivedremo ancora.”

Rimase per un tempo indefinito, con lo sguardo perso in un inesistente orizzonte a riflettere sulle parole dell’amico. E, sempre più rapidamente, la consapevolezza di aver di fronte a sé un qualcosa di vero la stava invadendo. La certezza che l’apparenza, difficilmente, era realmente in grado di mostrare la vera essenza delle cose, di quello che ci circonda, di ciò che riesce a riempirci, le stava rinforzando l’animo. Probabilmente anche tutto il mondo, il suo mondo, che aveva cercato per mesi di seppellire e lasciarsi alle spalle, aveva sempre vacillato perché in bilico tra queste verità, ma come fare a riuscire a capire appieno, a riconoscerle, a distinguerle senza ombra di dubbio alcuno? Come fare a comprendere in quale direzione doveva orientarsi la sua fiducia? Come riuscire ad avere la certezza di possedere davvero il dono di saper osservare, guardare ed andare oltre allo scontato, alle false apparenze, alle scuse ipocrite, a…
Quanto di positivo poteva davvero esistere nel negativo?
Dove il negativo riusciva a nascondersi nel positivo?
Bene, male. Vero, falso. Essere ed apparire. Amore ed odio.
Era poi vero che entrambi dovevano per forza convivere uno nell’altro come inscindibili materie, parti dello stesso essere, di qualsiasi essere, di qualsiasi natura esso fosse?
E tutto ciò in cui da sempre aveva creduto, in ogni caso, anche nei momenti peggiori di ansia, delirio, paura e dubbi? E quelle persone in cui…

Smise di pensare. Lasciando che solamente il suo istinto e i suoi sentimenti le facessero da guida, come coraggiosi compagni, come forti combattenti, come vera essenza del suo stesso Io.
Il sole era ancora alto, il suo destino, il suo percorso la stavano attendendo ed ancora erano molte le miglia da percorrere.
Era giunto il momento di prender fiato e ripartire, di andare incontro al suo inevitabile futuro, di scoprire il dove, o, forse, molto più semplicemente il come, ma con un qualcosa somigliante ad una debole certezza in più dentro il suo animo: in ogni caso, qualunque sarebbe stata la conclusione, qualunque la meta, in ogni istante del suo percorso, lei stava Vivendo.

Sorrise.
Ora il suo piccolo bagaglio di esperienza da portarsi sulle spalle, forse, sarebbe pesato un pochino di più. E di questo si sentì enormemente felice.

La sua moto, ancora mezza luccicante sotto la polvere del giorno prima, la stava pacificamente attendendo dall’altra parte della strada per condurla verso un ignoto chissà dove, di cui, però, in quel momento non ne aveva alcun timore.
E l’ansia che stava ancora una volta per attanagliarle lo stomaco, sarebbe presto svanita, coperta dal suono del suo motore. O, almeno, in quel momento, ne era quasi sicura.

7.
La strada stava scorrendo lenta, pacifica, immersa nella gigantesca vastità di quel paesaggio, tagliando nettamente in due spaccati perfetti quell’infinita distesa di terra tornata ad essere arida.
All’orizzonte, lontano, dove il suo sguardo faceva fatica ad arrivare, poteva scorgere altre montagne e una natura pronta a mostrare di nuovo tutto il suo rigoglioso splendore.
Procedeva sempre più sicura di sé, ogni suo movimento naturale, spontaneo, quasi non meditato, come se il suo corpo e la sua mente fossero diventate un’unica cosa, una sola entità con quella motocicletta rinata dalle sue stesse mani.
Una brezza tiepida le accarezzava il volto, passando con delicatezza tra i suoi scuri capelli lisci.
Sembrava tutto perfetto, nessuno in quel momento avrebbe mai potuto immaginare l’insorgere a sorpresa di un irritante imprevisto, nessuno… eppure, beffardo destino capace sempre di ribaltare completamente le situazioni, fu proprio quello che accadde.

All’improvviso, il motore iniziò a scoppiettare, starnutire, perdendo colpi a rallentare i suoi giri a non rispondere più al gas inutilmente ancora aperto, finché di colpo si fermò.
Incredula ed incapace di dare una plausibile spiegazione all’accaduto, Maya fece scivolare il suo mezzo, lasciandolo andare, sempre più piano, come a voler guadagnare qualche metro prezioso, sino ad accostare lentamente sul ciglio della strada.

“Non ci posso credere! E adesso cosa diavolo ti prende?!?”
Scese dalla moto, cercando – abbastanza inutilmente – di mantenere la calma, la lucidità e la razionalità sufficienti per tentare, quantomeno, di capire cosa mai fosse potuto accadere e, soprattutto, cosa avrebbe potuto fare per riprendere rapidamente la sua rotta.
Perfettamente vano ogni suo tentativo.
Attorno nessuno. E nessuno in arrivo.

“Cristo santo! E adesso? Cosa diavolo faccio? Dove… dove! Come!?”
In pochi istanti il suo sconforto si tramutò in una vera e propria crisi nervosa, in preda al panico e all’isteria, tirò un calcio alla motocicletta, urlò, bestemmiò, sino a sedersi rassegnata tra la polvere, cercando di far sbollire il suo spirito. Sperando di sentire in lontananza l’arrivo di qualsiasi vettura e di qualunque essere umano, rimase qualche minuto immobile, sapendo bene che molto difficilmente qualcosa sarebbe successo se non avesse lei stessa preso in mano l’iniziativa. L’unico piccolo particolare insignificante era: come?

“Ok, bella, non è questo il momento adatto per fare certi scherzi e, onestamente, non credo neppure di meritarmeli da te. Quindi vediamo di fare poche storie, intesi? Ora io mi alzo, con grande calma risalgo in sella, giro la chiave dell’accensione, schiaccio start e tu riparti, ok? Come se nulla fosse mai successo, va bene?!”

Senza dar minimo credito alle sue stesse parole e non credendo neppure lontanamente per un secondo che la sua nuova strategia potesse portare alla risoluzione del problema, completamente svuotata da quell’inaspettato e alquanto seccante imprevisto, ritornò a cavalcioni del suo mezzo, infilò la chiave nel blocchetto d’accensione e la girò.
Il quadro si accese.
“Dio, dimmi che è un miracolo!”
Timidamente diede un piccolo colpetto di gas, quasi d’incoraggiamento, fece un profondo sospiro e, chiudendo gli occhi, schiacciò il tasto start e…

Senza alcun cenno di titubanza e senza perdere neppure un colpo, la moto, impeccabile, ripartì.
Non ci voleva credere.
Sorrise e un pensiero intenso fece tornare la sua mente alle parole e al volto del vecchio indiano.
Ora poteva ripartire tranquilla, senza chiedersi né “dove” né perché.

Rinata per la seconda volta, quella sorprendente bicilindrica sembrava ora potesse davvero aver in mano lei la guida di sé stessa, come se riuscisse lei a condurre i movimenti, tracciare rotte e traiettorie, come animata d’uno spirito tutto suo. E Maya era felice di farsi portare, di lasciarsi trascinare forse da qualcosa di più grande di lei, forse dal suo stesso destino.
Completamente rapita dalla maestosità e dallo splendore di quel paesaggio in perenne mutazione, dall’asfalto consumato dalle centinaia di miglia percorse e da quella piacevole aria fresca che da qualche tempo era giunta a rinfrescarle il volto, ancora non si era resa conto della pace che pian piano l’aveva invasa, della serenità di ogni suo respiro, della gioia di cui risplendevano i suoi occhi… e del luogo in cui stava giungendo.

Ad un tratto, come inconsciamente attratta da qualcosa di inspiegabile, decise di fermarsi, accostando la motocicletta accanto ad un grande albero secolare ai piedi del quale iniziava un piccolo sentiero che andava addentrandosi nei meandri di un bosco fitto ed incantevole.
Il sole era ancora abbastanza alto, il buio non sembrava ancora in procinto di giungere, così, senza pensarci, in totale balia del suo istinto, decise in tutta tranquillità di sgranchirsi le gambe e imboccare quella piccola via. Qualcosa la stava chiamando, qualcosa di incomprensibile e già conosciuto la stava spingendo verso l’ignoto della fine di quel sentiero, forse qualcosa al di là di quelle rocce, di quei fitti cespugli…
Improvvisamente si fermò.

Dinnanzi a lei il rosso di un tramonto infuocato si stava specchiando nelle limpide e calme acque di un grande lago. Il suo lago. Lo stesso sognato, lo stesso tanto bramato.
Allungò una mano per toccarne le fresche acque. Bevve piano e poi rimase lì, immobile, per tempo indefinito, specchiandosi nell’infinito del mondo e nell’immensità di se stessa, riuscendo finalmente a capire, a riconoscere la vera essenza del suo Io e dell’Universo che lo circondava da sempre, a percepire chiaramente quelle Consapevolezze ora fatte realmente sue… ad osservare, vedere e comprendere quale sarebbe stata la salvezza, quale la via, quale la verità.
Tutto chiaro, tutto racchiuso nella sua mente, nel profondo del suo animo, nella grandezza del suo cuore, da sempre. E per sempre avrebbe saputo dove cercarlo, dove trovarlo e dove riconoscerlo.

Il suo viaggio era concluso, quell’ignobile velo gettato per sempre, la sua meta trovata e tanta strada ancora da scoprire la stava attendendo.
Ora sarebbe stata in grado di osservarla davvero, ora avrebbe avuto la forza e il coraggio per continuare a lottare, riuscire davvero a Vivere.


Anna “Annina” Lorenzi


(dicembre 2007 / marzo 2008 – scritto, con il “supporto” di un’amica, per essere pubblicato sulla rivista Women on Bikes – racconto inedito)